La Cura che mettiamo in ogni area d’intervento è un atteggiamento, una tensione interiore che in qualche modo modifica la qualità e aggiunge valore all’attività che svolgiamo,
Il lavoro di cura sembra un lavoro trasparente, come il vetro: visibile solo constatando i danni della sua assenza, più che i vantaggi del suo usufruirne.

Per l’associazione Arcobaleno l’impegno di promuovere la salute mentale dei propri associati non si sottrae al tentativo di ridurre o contrastare il fenomeno della frattura sociale e lo fa attraverso la comunicazione e la cultura.

Fare salute mentale vuol dire educare alla contemporaneità. Senza la spinta di un robusto investimento culturale sarà difficile attenuare le condizioni di svantaggio rispetto agli aspetti materiali ed immateriali dei cittadini e questo può impedire l’avvicinarsi a momenti di benessere e cura.

Gli spazi associativi diventano dunque dei possibili “Luoghi Comuni di Umanità”, spazi in cui sostare insieme ad altri, poter apprendere e mettersi in ascolto, prima di tutto di se stessi. Ma anche opportunità di scambiare desideri e immaginari, confrontandoli quotidianamente in un contesto di accoglienza in cui rendere possibile la produzione di significati anche a partire dalla sofferenza individuale.

Prendere parte insieme ad altri alla realizzazione di prodotti culturali (una rivista, una mostra, un concerto) e di azioni e iniziative rivolte alla cittadinanza (sportello sociale, gruppo di acquisto) è un’esperienza che permette alle persone di occuparsi della propria sofferenza giorno per giorno in una dimensione collettiva e non di isolamento e offre l’opportunità di nuove rappresentazioni di se stessi, riscoprendo competenze, abilità e sensibilità che riacquistano significato proprio nel prendersi cura di se e degli altri. Essere utili a se e gli altri o come a volte si dice in associazione che i “matti aiutano i sani”, prova a capovolgere lo stigma nei confronti della follia e a cambiarne la rappresentazione sociale.

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Il fatto è che molta competenza professionale ha la sua radice in quell’immagine viva della cura che ci portiamo dentro.

Oltre ad un problema di traduzione ci troviamo a confrontarci con un con un’altra difficoltà. Cioè la percezione che il linguaggio sia un orpello ormai desueto, anacronistico. I limiti del linguaggio sono i limiti del mondo (Wittgenstein). Il perdere la dignità della parola e non avere cura dei processi cha la generano condanna la parola stessa all’oblio. La parola non ha più i filtri del “pubblico”, il processo della sua costruzione non è più “collettiva”, al più viene definita da un algoritmo. Il lavoro di cura consiste esattamente nell’opposto: nel frequentare lo spazio dentro cui la parola, da privata (da accolta), si veste di dignità (o si traveste) e diventa pubblica, collettiva. Oggi la parola, da strumento di cura, è appiattita dalla smemoratezza della frammentazione in una miriade di stimoli. Non c’è fatica nei processi di costruzione della parola…. La si butta in rete e poi la si perde. I nostri soci, nei loro silenzi, e nelle loro parole, ricche di fatica e pensieri, ci dicono della fatica e dello sforzo per farle uscire…. Diventano agenti, loro stessi, di cura costruendo “cantieri di comunicazione” dove, per attraversarli serve predisporsi al conflitto, sano, ed un antagonismo reale. Un “corpo a corpo” in cui la cura è l’agente mediatore della comune necessità di riconoscersi ed essere riconosciuti.

Il lavoro di cura, processo inevitabile della Storia, non è nemico delle tecnologie. Ne può interpretare usi e simbologie, può “tradurre” necessità e bisogni. Indirizza questi nuovi “ciclostili” a ricostruire biografie e, prendendosene cura, costruire nuovi approcci al loro uso.